Spuma rigogliosa e colori intensi e vivaci sono i primi elementi di attrazione del Lambrusco, vino prodotto in una delimitata porzione del territorio padano che sta risvegliando l’attenzione dei grandi mercati. Il dilagare della ristorazione veloce & cheap, da strada, informale ma a volte anche molto ricercata, trova in questa tipologia una forte affinità che si concreta nella versatilità di impiego. Da circa mezzo secolo il modo di fare Lambrusco è decisamente cambiato: negli ultimi decenni si è spinto ai confini dell’Hi-tech, con pratiche colturali (ma soprattutto enologiche) sofisticate e massificanti, sempre giustificate dall’incipit “… tanto il consumatore medio non è disposto a spendere più di X per una bottiglia di Lambrusco”) . Ebbene, oggi questa idea un po’ vincolante della produzione si è finalmente evoluta verso un mare di eccezioni. Fra queste, la più dirompente è di fatto “restauratrice”: l’autoclave non è più il solo strumento che consenta di giungere in pochi mesi a un risultato sicuro seguendo un protocollo tecnologico (con obiettivo primario l’imme-diata bevibilità post-imbottigliamento). Largo quindi alle rifermentazioni in bottiglia, come facevano i nonni, attendendo i tempi della Natura. E nemmeno i lieviti selezionati che i più utilizzano in fase di vinificazione, sono così indispensabili: se il produttore è accorto nel portare in pressa frutti sani (clima permettendo) e conduce le trasformazioni in vasi vinari ben puliti, potrà “rischiare” una fermentazione spontanea in cui i lieviti del posto daranno un tocco più verace al vino, fin dalla sua genesi. Un po’ di mosto tenuto al freddo servirà in seguito a rivitalizzare lo stesso Lambrusco creando le desiderate bollicine in modo più graduale e duraturo. E ancora: l’utilizzo generoso di solfiti, che proteggono il prodotto dalle incognite dei viaggi e delle conservazioni poco accurate, viene oggi disatteso da coraggiosi produttori che riducono sensibilmente tali aggiunte in nome della digeribilità e della salute. Non solo quindi l’appartenenza a un territorio specifico (regolato dal sistema delle denominazioni), ma diverse interpretazioni che volgono a distinguersi, si tengono a debita distanza dagli standard. Si riscoprono così anche le varietà cosiddette “minori” o “complementari”, quasi del tutto abbandonate perché meno produttive o meno resistenti ai parassiti. Oliva, Montericco, Barghi, Fioranese, suonano come esotici sconosciuti nonostante siano storicamente presenti nelle aree vitate del reggiano e modenese. Chi ha osato perpetuarli rinunciando alle rese elevate, prendendosi qualche rischio in fase di produzione e ancor di più nella collocazione sul mercato, oggi riesce quasi sempre a trovare riscontri tra i consumatori più attenti, in cerca di originalità.
Matteo Pessina