Ladies & gentlemen, messieurs et mesdames, volontari di ieri, di oggi e di domani!!
Martedì 6 alle 21.30 presso il Circolo Il Portico a Torrile si terrà la riunione dello staff per assegnare le mansioni ai volontari della Festa del Lambrusco 2016. Non mancate e portare con voi amici e parenti: più siamo e più ci divertiamo!
La nostra festa conta anche su di te per continuare a crescere e a donare con gusto.
Spuma rigogliosa e colori intensi e vivaci sono i primi elementi di attrazione del Lambrusco, vino prodotto in una delimitata porzione del territorio padano che sta risvegliando l’attenzione dei grandi mercati. Il dilagare della ristorazione veloce & cheap, da strada, informale ma a volte anche molto ricercata, trova in questa tipologia una forte affinità che si concreta nella versatilità di impiego. Da circa mezzo secolo il modo di fare Lambrusco è decisamente cambiato: negli ultimi decenni si è spinto ai confini dell’Hi-tech, con pratiche colturali (ma soprattutto enologiche) sofisticate e massificanti, sempre giustificate dall’incipit “… tanto il consumatore medio non è disposto a spendere più di X per una bottiglia di Lambrusco”) . Ebbene, oggi questa idea un po’ vincolante della produzione si è finalmente evoluta verso un mare di eccezioni. Fra queste, la più dirompente è di fatto “restauratrice”: l’autoclave non è più il solo strumento che consenta di giungere in pochi mesi a un risultato sicuro seguendo un protocollo tecnologico (con obiettivo primario l’imme-diata bevibilità post-imbottigliamento). Largo quindi alle rifermentazioni in bottiglia, come facevano i nonni, attendendo i tempi della Natura. E nemmeno i lieviti selezionati che i più utilizzano in fase di vinificazione, sono così indispensabili: se il produttore è accorto nel portare in pressa frutti sani (clima permettendo) e conduce le trasformazioni in vasi vinari ben puliti, potrà “rischiare” una fermentazione spontanea in cui i lieviti del posto daranno un tocco più verace al vino, fin dalla sua genesi. Un po’ di mosto tenuto al freddo servirà in seguito a rivitalizzare lo stesso Lambrusco creando le desiderate bollicine in modo più graduale e duraturo. E ancora: l’utilizzo generoso di solfiti, che proteggono il prodotto dalle incognite dei viaggi e delle conservazioni poco accurate, viene oggi disatteso da coraggiosi produttori che riducono sensibilmente tali aggiunte in nome della digeribilità e della salute. Non solo quindi l’appartenenza a un territorio specifico (regolato dal sistema delle denominazioni), ma diverse interpretazioni che volgono a distinguersi, si tengono a debita distanza dagli standard. Si riscoprono così anche le varietà cosiddette “minori” o “complementari”, quasi del tutto abbandonate perché meno produttive o meno resistenti ai parassiti. Oliva, Montericco, Barghi, Fioranese, suonano come esotici sconosciuti nonostante siano storicamente presenti nelle aree vitate del reggiano e modenese. Chi ha osato perpetuarli rinunciando alle rese elevate, prendendosi qualche rischio in fase di produzione e ancor di più nella collocazione sul mercato, oggi riesce quasi sempre a trovare riscontri tra i consumatori più attenti, in cerca di originalità.
Matteo Pessina
Voglio spiegare al mondo perché il Lambrusco è l’unico vino di libertà.
Lo spiego io, perché io li ho conosciuti bene: Libero e Libera, Spartaco, Lenin, Emma detta la Rossa, Solidea e Solidario, Comunardo, Rivoluzio. Tutti battezzati con il Lambrusco.
Nelle case del popolo, costruite in faccia alle chiese, frizzante e rosso il sugo nelle uve reggiane e modenesi colava sulle fronti di quei bambini, figli di socialisti e anarchici, per aspersorio un cucchiaino: “Io ti battezzo Libertà”.
Sgocciolavano su quei destini nomi forti, densi, carichi, non mitologici: Reclus, Eliseo, Jenner, Luisa, Giordano Bruno, Juarés. Nomi che sei già grande appena nato. “Io ti battezzo Eguaglianza”.replica watches
Il fascismo ne fece strage, bestiale, anche all’anagrafe: di Comunardo restò solo Nardo.
Erano gocce di un prodotto vivo, profumato di terra, effervescente, rosso, nero in bottiglia. L’acqua stagnante dei battesimali, ferma, stantìa, al confronto sbiadiva. In quelle chiese piccole e innalzate al cielo si pensava ad altrove, il naso per aria. Noi nelle case del popolo tenevamo i piedi per terra e le facevamo più larghe e basse che potevamo, perché più ampie erano, più donne e uomini potevano contenere, a cercare qui, il loro paradiso proletario.
Esiste dalla notte dei tempi, il Lambrusco, da Romolo e Remo. Vitigni selvatici, ribelli, incontrollati. Non facili da governare, da trattare con rispetto. È Lambrusco, ma anche Lambrusca, e questo piaceva a noi donne anarchiche di Santa Croce, con la lavalliére al collo in segno di emancipazione.
I vecchi anarchici lo ricordavano con orgoglio: “Mé sun stèe batzèe cun al Lambròsc”. Trovate un altro vino al mondo cosi! E che sappia innaffiare i tortelli e i cappelletti antifascisti così bene, che ti alzi da tavola con la voglia di cantare. Cercate pure, io brindo con voi a Lambrusco.
‘Luigi Veronelli”
Fonte: AIS Veneto
Il nome Lambrusco racconta l’origine di questo vitigno dalla vite selvatica, la “labrusca”, già conosciuta nell’età del bronzo, come testimoniano i ritrovamenti di foglie fossili.
Un vino di successo che rispecchia a pieno la popolarità in loco, dove gli affezionati si dividono tra estimatori del più fine Sorbara, del più intenso Grasparossa o ancora del Salamino o del Maestri, della tipologia dolce o di quella secca, del profumo di viola o dei sentori di frutti di bosco maturi.
Quali che siano le preferenze personali, il Lambrusco si riconosce fin dal primo sorso: la sua freschezza, le sue bollicine e i suoi profumi di frutta rossa non lasciano dubbi.
L’Emilia Romagna è patria di pecore nere o mosche bianche, da Peppone e don Camillo ai Peruzzi del romanzo Canale Mussolini.
Abbiamo scoperto che è così anche nei vini, ecco perché la delegazione AIS di Verona organizza una serata di lambruschi insoliti, originali, bastian contrari che non seguono il cliché del vinello facile, da bere entro l’anno, ma longevi, che ricercano invece equilibri da raggiungere con l’età.
Forse vini eretici, o forse vini che ritornano dal passato, bisavoli, teste calde, però sempre diretti e generosi, come unica vera regola senza eccezioni di questa grande regione.
La storia del Lambrusco racchiude dentro di sè il fascino dei poeti e degli scrittori dell’età classica (Virgilio, Catone, Varrone) che nelle loro opere raccontano di una “Labrusca vitis
Fonte: AIS Veneto – Paolo Bortolazzi
Spuma rigogliosa e colori intensi e vivaci sono i primi elementi di attrazione del Lambrusco, vino prodotto in una delimitata porzione del territorio padano che sta risvegliando l’attenzione dei grandi mercati. Il dilagare della ristorazione veloce, da strada, informale ma a volte anche molto ricercata, trova in questa tipologia una forte affinità che si concretizza nella versatilità di impiego.
Da circa mezzo secolo il modo di fare Lambrusco è decisamente cambiato: negli ultimi decenni si è spinto ai confini dell’hi-tech, con pratiche colturali e enologiche sofisticate e massificanti, sempre giustificate dall’incipit “tanto il consumatore medio non è disposto a spendere più di X per una bottiglia di Lambrusco”.
Ebbene, oggi questa idea un po’ vincolante della produzione si è finalmente evoluta verso un mare di eccezioni, largo quindi alle rifermentazioni in bottiglia,come facevano i nonni, attendendo i tempi della Natura.repliche orologi
Nemmeno i lieviti selezionati che i più utilizzano in fase di vinificazione, sono così indispensabili: se il produttore è accorto nel portare in pressa frutti sani (clima permettendo) e conduce le trasformazioni in modo corretto potrà “rischiare” una fermentazione spontanea in cui i lieviti autoctoni daranno un tocco più vero al vino, fin dalla sua genesi.
L’utilizzo generoso di solfiti, che proteggono il prodotto dalle incognite dei viaggi e delle conservazioni poco accurate, viene oggi disatteso da coraggiosi produttori che riducono sensibilmente tali aggiunte in nome della digeribilità e della salute.
Si riscoprono così anche le varietà cosiddette “minori” o “complementari”, quasi del tutto abbandonate perché meno produttive o meno resistenti ai parassiti. Oliva, Montericco, Barghi, Sgavetta, Termarina, Fioranese, suonano come esotici sconosciuti nonostante siano storicamente presenti nelle aree vitate del reggiano e modenese.
Chi ha osato perpetuarli rinunciando alle rese elevate, prendendosi qualche rischio in fase di produzione e ancor di più nella collocazione sul mercato, oggi riesce quasi sempre a trovare riscontri tra i consumatori più attenti, in cerca di originalità.